martedì 15 novembre 2011

Dead Weather - Horehound (2009)


Quando certe canaglie discografiche (o cinematografiche; taccio di altre manifestazioni artistiche) individuano una vena d’oro di considerevole valore e sostanza danno origine, come lungo la frontiere occidentali degli Stati Uniti ottocenteschi, a rapidissime new towns. Durante quegli anni leggendari, infatti, attorno alle vene aurifere sorgevano improvvisamente (in pochissimi giorni) degli agglomerati urbani popolati da predoni, disperati, truffatori, famigliole, bottegai, giocatori d’azzardo, latifondisti, banchieri – un’umanità variegata e spietata decisa a sfruttare, da subito, sino all’osso, il tesoro scoperto. Purtroppo, una volta esauritosi il metallo, le città, così rapidamente ingrossatesi, si spopolavano altrettanto repentinamente: tali centri urbani quindi, a volte demograficamente rilevanti, e spesso dotati d’una certa opulenza architettonica, si trasformavano in ghost towns destinate a polverizzarsi sotto le canicole del Nuovo Mondo (assieme ai cadaveri dei poveracci). 
Una delle tante vene d’oro individuate col bastone da rabdomante dei gonzi risiede nel blues basico (con venature stoner) di White Stripes e Kills, discreti, ma già copia palliduccia dei Jon Spencer Blues Explosion e di altri maggiori che non vale la pena di gettare nella bolgia critica. Una delle tante new towns velocemente approntata dai volponi è il supergruppo Dead Weather (il nazionalismo ed i supergruppi sono l’ultimo rifugio delle canaglie) formato dalla berciatrice Alison Mosshart (The Kills), da Jack Lawrence e Jack White (basso e batteria; Raconteurs e White Stripes) nonché da quel buon diavolaccio di Dean Fertita (chitarra; Queens of the Stone Age). A questo punto il macigno critico è in equilibrio su un crinale: o lo supera e il disco diverrà sempre più imprescindibile nella valutazione generale oppure rotolerà indietro a valle travolgendo i suoi malaccorti estimatori: una della tante branche fantasma della nuova musica anni Duemila. Non so perché, ma sento di scommettere sulla seconda ipotesi: quando la pubblicità e la moda sfacciata pompano il prodotto esso appare, malgrado tutti i nostri accorgimenti, sfavillante; quando queste si ritraggono (assieme agli apparati mediatici con esse conniventi) cosa resta di tale magnificenza? Nel disco, accanto ad episodi deprecabili (gli insopportabili I cut like a buffalo e Treat me like your mother), non mancano punte di tutto rispetto (60 feet all, So far from your weapon), ma l’impressione trasmessa è quello d’una deliberata piattezza produttiva che ha bene in vista un certo tipo di pubblico già sintonizzato su ciò che gli si vuole offrire. La serialità ed i toni plagiari son evidenti in più di un brano.
Probabilmente anche i Dead Weather, come White Stripes e gente affine (al netto di qualche brillante episodio), sono già avviati verso il binario morto dell’irrilevanza critica.

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