mercoledì 28 dicembre 2011

The Flying Luttenbachers – The revenge of the Flying Luttenbachers (1996)/Gods of chaos (1998)


Formatisi a Chicago attorno alla figura di Weasel Walter (l'unico membro stabile delle varie incarnazioni del gruppo), i Luttenbachers deviarono ben presto da un pur labilissima ombreggiatura jazz per approdare ad uno sperimentalismo estremo e cacofonico in cui convivono John Zorn e Contortions.
D'altra parte i primi lavori, Constructive destruction e Destroy all music, valgono più di qualsiasi manifesto estetico. The revenge of the Flying Luttenbachers vede una formazione rinnovata (Chuck Falzone, chitarra; Bill Pisarri, basso, violino, clarinetto; Weasel Walter, percussioni, sassofono): le intenzioni sono, da subito criminali: Storm of shit lumeggia mirabilmente il sound (?) del gruppo,  un assalto sonoro alla Chrome, ma spinto sino alla meta segreta: lo stordimento. I ritmi accelerati di Clank, Murder machine muzak (quasi un Dick Dale avanguardistico), Death ray, Thought for Americans sono pachidermi impazziti che stritolano ogni aspettativa di frase musicale riconoscibile e riproducibile; costituisce un limite, a mio avviso, ma anche una lucida testimonianza d'uno scacco metafisico più che artistico, ovvero il naufragio d'un senso razionale della realtà.

Il successivo Gods of chaos tiene fede alla follia pregressa: introdotti à la vaudeville da un ubriaco, i Nostri si scatenano con le quattro parti di The pointed stick variations, che svariano dalla cacofonia totale (in cui la materia sonora dell'universo pare esplodere nell'insoddisfazione per l'ordine e la melodia) a ritmi marziali sovrapposti a ghirigori folli per sassofono, sino all'acquietamento: ancora improvvisazioni e nonsensi percussivi e chitarristici esercitati su rumori di palude. Stream of needles, Floatation method, Alien autopsy (interrotti, per la salute mentale degli ascoltatori, dalla breve registrazione della risacca marina) si materiano di bulldozer sonori, percussioni a vanvera, lamenti, sferragliamenti chitarristici, scarti ritmici: pandemoni dementi che culminano nei dieci minuti di The sun is bleeding, uno dei massimi livelli di destrutturazione rock di sempre, rigetto di qualsiasi tentativo di classicismo e metafora sincera ed estrema dell'incomunicabilità (che, comunque, allignava, sotto forme diverse, ma assimilabili, presso il punk e l'hardcore).
Rimane da scoprire, e dobbiamo stupircene ogni volta, perché tali esplorazioni radicali provengano da continenti musicali storicamente estranei alla speculazione e permeabili alla grossolanità; evidentemente è proprio quest'ultima, col suo serraglio mainstream, a stimolare queste escursioni nelle plaghe dell'assurdo. 

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