mercoledì 23 luglio 2014

Early psychedelia vol. 17 (It's a Beautiful Day/Hapshash & The Coloured Coats/Tomorrow)

It's a Beautiful Day

It's a Beautiful Day (USA, San Francisco, California) - It's a Beautiful Day (1969). L’unico vero gruppo in grado di competere (solo con questo disco) con la mirabile psichedelia melodica dei Jefferson Airplane (e Patti Santos, la ragazza che potete ammirare sopra, regge visivamente e vocalmente il ring con Grace Slick). Un album che unisce l’ingenuità e la potenza delle illusioni propria dei moti californiani del periodo (libertà, terzomondismo, influenze orientali) a una costruzione cristallina delle canzoni, impreziosite dagli intarsi vocali e strumentali dei Laflamme e della Santos. Bellissime White bird e Hot summer day; notevole Time is; storica Bombay calling, a cui i Deep Purple, con perizia manigolda, applicarono l’espianto fatale buono per rendere immortale Child in time. Se non siete dei bruti l’avrete già ascoltato. In caso contrario civilizzatevi alla svelta. David Laflamme, voce, violino; Hal Wagenet, chitarra; Pattie Santos, voce, percussioni; Linda Laflamme, tastiere; Mitchell Holman, basso; Val Fuentes, batteria; Bruce Steinberg, armonica.

Hapshash & The Coloured Coat (Gran Bretagna, Londra) ‎- Featuring the human host and the heavy metal kids (1967). Michael English e Nigel Waymouth furono soprattutto grafici e designer: i loro manifesti per concerti (Pink Floyd, Incredible String Band e altri gruppi underground dell’Ufo Club), dagli accesi cromatismi propri della cultura psych del tempo, sono dei piccoli capolavori; il critico Federico Zeri che, negli ultimi anni di vita, era sempre più attratto dalle copertine degli LP quale ulteriore manifestazione dell’animo artistico, li approverebbe in pieno. Nel 1967 i due ordirono questo eccentrico tour de force sospeso fra tribalità e reiterazione mantra (Aoum, infatti, figura fra i cinque brani). L’entrata (H-O-P-P-Why?) e l’uscita (i quindici minuti di Empire of the sun) bastano a guadagnargli uno scranno indiscusso nell’Accademia dei Lincei degli spostati, magari accanto a Help I’m a rock di Zappa. Da ascoltare subito. Mike Harrison, voce; Luther Grosvenor, chitarra; Greg Ridley, basso; Mike Kellie, batteria, percussioni; Guy Stevens, Michael English, Nigel Waymouth.

Tomorrow (Gran Bretagna) - Tomorrow (1968). Steve Howe, pre-Yes, e il genialoide Twink dei Pink Fairies, innervano il sottovalutato gruppo britannico. White bicycle e Revolution sono già classici della psichedelia anglosassone, ma il fascino dell’album risiede, oltre che nell’atmosfera sottilmente sfasata, in una commistione paradossale fra allure antiborghese e inflessioni sonore da vecchia Inghilterra: un melange che, con forzatura paradigmatica, potremmo definire beatlesiano; d’altra parte gli Oltremanici, musicisti bistrattati rispetto alla tradizione germanica, slava e mediterranea, non eccellono in marcette e fanfare? Non sarà forse la pompa, derubricata dall'ironia da teatranti, la cifra del beat-pop inglese? Stanley Kubrick, in Arancia meccanica, colse pienamente tale sentire alternando all’elettronica di Walter Carlos (che neutralizzava, nichilista, la cultura alta continentale, da Rossini e Beethoven) il formalismo di Sir Edward Elgar e il funebre incedere di Henry Purcell. Da ascoltare. Keith Alan Hopkins, voce; Steve Howe, chitarra; Mark P. Wirtz, tastiere; John Junior Wood, basso; John Twink Alder, batteria.

Poster di Waymouth per i Pink Floyd

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